‘Io vivo in un piccolo paese della Sicilia. Con le mie letture, i miei pensieri, resto in disperata solitudine, senza possibilità di umana comunicazione: quasi fossi preda di un vizio segreto e inconfessabile. Ma se penso ai miei amici di Catania, la mia condizione mi appare meno triste. Quel proverbio siciliano che dice – meglio solo che male accompagnato – mi pare faccia al caso loro, e al mio. Io sono solo; ma loro mal’accompagnati. Loro vivono in una grande città; attiva città: non possono fare a meno di tentare con la loro città un dialogo, un incontro; e costantemente ne sono respinti. L’ambiente resiste graniticamente ai loro attacchi. L’ambiente resiste ancora a Verga in nome di Rapisardi. Verga, è vero, ha ora una piazza grande; e presto avrà (horresco referens) un monumento. Ma Rapisardi con la sua cravatta a fiocco, il suo largo cappello, il suo parapioggia nero, tiene in mano la città – come quei santi protettori che nelle pale d’altare son figurati con tutto il paese sul palmo delle mani. Vecchi tromboni dominano la vita letteraria e artistica della città: ovunque ci sia una manifestazione artistica o culturale te li trovi tra i piedi, sbavano nero come seppie, generano confusioni con la loro mondana autorità’.
Ad aprire l’antologia, un racconto di Giuseppe Bonaviri, La mammina: un testo che lo scrittore di Mineo (che in quell’anno aveva pubblicato per Einaudi, Il sarto della stradalunga) aveva scritto nel marzo del 1945 e dove, nella storia della ‘mammina’, un’avida e infelice tenutaria di una casa d’appuntamento, emergono atmosfere, temi e luoghi di quel mondo popolare, marginale e afflitto che tanto posto occuperà nella narrativa di Bonaviri.
Un’altra prosa, Parole sul tempo, veniva da un giovane giornalista, Gaetano Zappalà che in un intreccio di storie, di diversi personaggi, coglieva attimi e situazioni di vita fragili, fuggevoli, dal senso effimero, com’è appunto il tempo e il suo veloce scorrere. Ai due racconti seguivano, alternandosi efficacemente con la riproduzione di opere pittoriche di maestri catanesi (Nunzio Sciavarello, Carmelo Molino, Sebastiano Milluzzo), delle liriche: in una, Dal mio paese caldo, Giuseppe Consoli, cantava il mondo perduto della campagna e del piccolo paese dove allegria e felicità segnavano i giorni, cedendo però ora il passo ad una ben diversa realtà (‘s’apre la mia tristezza, se mi distendo nel tempo/agavi, sciàre pistacchi, nel sole fisso ai campanile del mio paese’); in Canicola, Tommaso Papandrea, rendeva metaforicamente il clima della città con ‘l’Etna accecato di cupo livore’ e un ‘fosco sole’ che imperversa sulla città e si trasforma in arsura e calore; paesaggi isolani emergevano in Crociera del Sud di Fiore Torrisi: (‘tramontata per sempre la Croce del Sud, apparvero le isole dalla spalle quadrate, dov’erano pescatori di corallo, la crudele fatica delle tonnare, e le dune coltivate dai grecali estivi, i giardini di spugne…’); ancora, l’isola assolata, con la sua miseria ma anche con il suo grande calore e amore, diventa un ‘porto d’amore’ dove ‘resti ancorato, tra lo specchio delle acque e le scogliere’ e non puoi fuggire, nella lirica di Antonio Corsaro intitolata appunto A un porto d’amore. Infine in Dissonaze, di Angelo Strano è l’inquietudine esistenziale a prendere corpo e la vita ‘è solo squallore e sudore / e ansia di Dio e sesso / e peccato a manciate, / e suicidio che pulsa / nel sangue del mio cronometro, / e l’incrocio che mi sobbalza sugli occhi / col vigile, le auto, i pedoni, / l’esaurimento nervoso, / il romanzo che non riuscirò a finire,/mia madre che vuole che vinca un concorso / in un ministero, / e mio padre che muore / insieme ai vuoti flaconi di streptomicina’.
Ma non solo poesie e racconti e dipinti d’autore vi erano tra le pagine dell’antologia sciasciana dedicata a Catania: vi trovava spazio anche qualche dato sull’andamento demografico che vedeva la città in crescita rispetto agli altri centri capoluogo dell’isola e una breve nota su una novità di cui si parlava tanto: ‘pare ormai deciso che nel centro cittadino debba sorgere il grattacielo più alto d’Europa: 60 piani. A che serve il grattacielo? si chiedono i catanesi, a dar rifugio a quelli che quando piove restano sommersi dalle acque senza sbocco?
Infatti a Catania se ci sarà il grattacielo, non ci sono ancora le fognature’. Il progetto del ‘grattacielo’ era il segno di una città che stava cambiando: e dei mutamenti che stavano cominciando a stravolgerne fisionomia e identità, ne dava criticamente conto, l’unico autore ‘anziano’ di quell’antologia, Gesualdo Manzella Frontini, scrittore e critico d’arte già famoso.
‘Questa mia città’ – scriveva Manzella Frontini – ‘è venuta su a spalate progressive, sterrate oggi a destra e domani a manca, senza un piano e senza uno stile, e seguendo l’umore dei molti appaltatori di felice memoria. Intraprese l’età della crescenza poco curandosi dell’avvenire, fregandosene d’un carattere da perseguire. Ne è risultato un agglomerato di vie e quartieri, di case e di palazzi e muri di cinta e villini, di casermoni e di brutte imitazioni esotiche, di dislivelli incolmabili, disarmonici, contrastanti, stridenti’.
Ma, continuava lo studioso catanese, che era stato futurista della prima ora, se si guarda entro il perimetro della città antica, settecentesca, apparirà sì ‘un disordinato crescere’ ma ‘grazziadio qui c’è ancora lo strapaese genuino, intimo: il dedalo di viuzze sonore di voci di bimbi, di richiami di donne, ci sono i carrettini colmi di poggetti di pesche e pere e agli e peperoni e pomodori davanti alle bocche spalancate dei bassi. Da quelle bocche vengono inattese apparizioni: donne discinte stanche d’amore e di figli fanno ressa attorno al rivenditore’.
E continua Manzella Frontini a descrivere i tratti della Catania antica e popolare: in una stanza aperta a pianterreno ‘un fornello che odora di petrolio’ sventolato da una bimbetta stanca ‘che sventola finché il carbone divampi’; ‘l’osteria deserta e sapida di vino acido attorno all’oste sonnolento che sputa a volta a volta un suo amaro disdegno’; ‘la botteguccia cha fa mostra di sale e olio rancido, di nastrini e pepe, di pane e sapone’ e ancora la ‘chiesetta grande come un ciborio’ e due passi dopo, per la strada, in un gabbione, una ‘gallina che starnazza’, e un carretto dipinto e dei ‘monelli che fanno ginnastica sui raggi delle sue grandi ruote’.
Un mondo misero e modesto ma ancora autentico, che vive in un contesto urbano unico, di architettura spontanea e originale, che Manzella Frontini coglie e contrappone positivamente per l’umanità e la socialità che vi intravede alla nuova ma anonima e individualistica città che vi sta crescendo attorno.
E così contro ‘i vecchi tromboni’ che malamente detengono il potere culturale, annotava Sciascia, a Catania ‘è stato possibile metter su questa piccola antologia, trovare dei giovani che lavorano in assoluta indipendenza e con avvertitissimo sentimento del tempo’ e aggiungeva: ‘a Palermo – dove le cose vanno peggio -, siamo sicuri, sarebbe stato assai più difficile’.